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«Speravamo di trovarlo vivo»: parla il carabiniere che ha scoperto il cadavere di Del Rio

Tra intercettazioni, microspie e Gps, gli investigatori ricostruiscono i movimenti dei tre imputati. In aula anche il padre del corriere, uscito quando sono state mostrate le foto del cadavere
La Corte d'assise al processo per l'omicidio di Nicolas Matias Del Rio
La Corte d’assise al processo per l’omicidio di Nicolas Matias Del Rio

GROSSETO. Intercettazioni ambientali e telefoniche, Gps, tabulati, videocamere: sono questi i mezzi con cui i carabinieri di Grosseto hanno portato avanti le indagini sulla scomparsa e la morte di Nicolas Matias Del Rio, il corriere argentino sparito il 22 maggio 2024 e ritrovato senza vita un mese dopo, il 25 giugno.

Alla sbarra ci sono tre uomini che vivono sul monte Amiata: Emre Kaja e Ozgur Bozgur, entrambi di origini turche e l’albanese Klodjan Gjoni.

Nella mattinata del 9 ottobre, nell’aula della Corte d’assise del tribunale di Grosseto, il processo è proseguito davanti ai giudici popolari, alla giudice Agnieska Karpinska e al presidente della corte d’assise Sergio Compagnucci, con i sostituti procuratore Giovanni De Marco e Valeria Lazzarini.

In aula erano presenti Kaja, difeso dagli avvocati Riccardo Lottini e Alessio Bianchini, e Bozgur, assistito dagli avvocati Massimiliano Arcioni e Claudio Cardoso, mentre Gjoni, difeso da Romano Lombardi, non era presente in aula. 

Sono entrati in silenzio e si sono seduti, Kaja e Bozgur. Sul loro volto, nessuna traccia di emozione. Neppure quando Giampiero Bagnati, il luogotenente della prima sezione investigativa dei carabinieri di Grosseto, ha mostrato le foto del corpo di Nicolas. Solo Bozgur, per qualche secondo, ha abbassato lo sguardo.

«È stato un duro colpo anche per noi: speravamo di trovarlo vivo – ha detto in aula Bagnati – Invece abbiamo dovuto ricostruire l’omicidio».

L’ultima telefonata di Nicolas

Secondo quanto ricostruito dagli investigatori, il 22 maggio Nicolas avrebbe caricato sul furgone alcune borse di pelle di Gucci per un valore di circa mezzo milione di euro. Era il suo primo giorno di lavoro da solo, da quando era stato assunto dalla New Futura. Il percorso era breve: da Castel del Piano a Piancastagnaio, pochi chilometri appena. Alle 16.49 avrebbe chiuso il portellone del mezzo.

Poco prima, Gjoni si sarebbe recato a casa di Bozgur. Insieme, i due si sarebbero fermati a comprare del nastro adesivo e delle scatole vuote, per poi caricare Kaja e dirigersi verso via Lazzaretti. Alle 16.46 sarebbero già stati lì, in attesa.

Gjoni sarebbe sceso dall’auto e avrebbe fermato Del Rio con una scusa: un passaggio per consegnare quattro colli – i cartoni acquistati poco prima. Nicolas avrebbe telefonato al titolare della New Futura. L’uomo, però, avrebbe esitato: conosceva l’azienda citata da Gjoni e sapeva che qualcosa non tornava. Il 34enne lo avrebbe rassicurato dicendo che “lavoravano in nero”.

Il titolare, titubante, avrebbe dato comunque il suo consenso. Quella telefonata, alle 16.56, è stata l’ultima di Nicolas. Poi l’uomo ha chiamato il titolare, che gli ha confermato di aver chiuso. Quando ha provato a chiamare di nuovo Del Rio il telefono era già staccato.

Poco dopo, i due si sarebbero mossi verso Piancastagnaio: davanti il furgone con Nicolas e Gjoni, dietro la Panda gialla con Kaja e Bozgur. Secondo l’accusa, poco dopo si sarebbe consumata la rapina, seguita dal rapimento a pochi chilometri da Castel del Piano. Nicolas sarebbe poi stato portato a case Sallustri, dov’è stato ucciso e dove sono state nascoste le borse. E dai tabulati risulta che i tre si sono divisi, per una chiamata.

Le telecamere e il Gps della Panda hanno confermato ogni movimento dei tre.

Incastrati dalle telecamere

Da quella sera del 22 maggio, i tre si sarebbero recati più volte alla villa. Le telecamere di una casa di campagna li ha ripresi in diverse occasioni. Un dettaglio, in particolare, avrebbe attirato l’attenzione dei carabinieri: un furgone cassonato con doppia cabina, ripreso alle 22.41. Un orario insolito per un mezzo da lavoro.

Secondo gli inquirenti, all’interno ci sarebbero stati i tre, diretti a recuperare il furgone lasciato nel parco faunistico di Arcidosso. Una donna lo avrebbe visto intatto intorno alle 18. Poi, con la refurtiva, si sarebbero spostati verso casa Sallustri. La notte successiva, verso l’una, il furgone sarebbe stato incendiato. La testimone avrebbe sentito forti scoppi, probabilmente gli pneumatici che esplodevano.

Nei giorni seguenti, i tre sarebbero tornati più volte alla villa. I Ris avrebbero poi trovato nel sottotetto tracce biologiche riconducibili a Del Rio. Mura dentro le quali Nicolas avrebbe supplicato di non essere ucciso, ricordando che aveva un figlio. 

I tre per spostare la merce avevano bisogno di un mezzo abbastanza spazioso e lo hanno preso in prestito da un dipendente del cognato di Gjoni, a cui avrebbero detto che serviva loro per spostare dei divani.

Gli imputati più volte si erano scambiati solo alcuni squilli telefonici, per poi comunicare, secondo gli investigatori, tramite altri canali. Il 22 e il 25 maggio, i cellulari di Kaja e Bozgur sono stati spenti o in modalità aereo per diverse ore

E, secondo le indagini, i tre hanno ucciso il corriere il 23 maggio fra le 17.29 e le 17.52. Minuti in cui tutti e tre i telefoni degli imputati risultavano staccati.

Le intercettazioni e la famiglia Gjoni

Tutto è iniziato da una Panda gialla che è passata tante volte davanti ad una casa di campagna con le telecamere. Da  quel momento, i militari hanno iniziato a tenere d’occhio la zina: hanno nascosto i microfoni, visionato i tabulati, sorvegliato le due auto – la Panda gialla e un pick-up –  e controllato i loro spostamenti tramite Gps.

A un certo punto sarebbero entrati in scena anche i familiari di Gjoni. Stando alle indagini, lo avrebbero aiutato a nascondere parte della refurtiva – manici di borsa, 52 teli di pelle con la filigrana Gucci, borselli Louis Vuitton – e a pianificare la fuga.

Le telecamere hanno ripreso Niko Gjoni, il padre, uscire da casa Sallustri con un sacco nero poi lanciato in un campo. Le intercettazioni ambientali hanno registrato anche le conversazioni familiari: «Ora è meno rischioso, figurati avessero trovato… tu non saresti qua», diceva la sorella di Gjoni.

Quando i familiari dell’uomo hanno lasciato la procura, dopo che Gjoni era stato sentito, in auto erano agitati, come testimoniano le intercettazioni. La madre avrebbe ripetuto: «Spegni i telefoni», probabilmente per paura di essere ascoltata.

Secondo l’accusa, la famiglia avrebbe partecipato anche al tentativo di fuga di Gjoni, poi arrestato a Fiumicino

Nicolas Matias Del Rio

Gli arresti e il ritrovamento

L’unico con la patente era Gjoni. Le due auto usate per andare a casa Sallustri sono intestate alla famiglia Gjoni: la Panda gialla al figlio e il pick-up al padre. Entrambe avevano un macchinario delle assicurazioni con il Gps, che ha tracciato ogni spostamento.

I carabinieri hanno installato microfoni anche nell’auto della sorella di Gjoni: le intercettazioni hanno rivelato la preparazione della fuga. La famiglia in auto ha parlato di biglietti, contanti e 1.500 euro inviati a uno zio. 

«Meglio che vada via di nuovo», ha anche detto la madre. E la sorella consigliava di usare la sua auto per andare a casa Sallustri, dopo che svariate volte ci erano andati con la Panda e il pick-up.

E poi la “confessione”: Gjoni ha rivelato il luogo in cui si trovava il corpo

Secondo la procura i tre sarebbero stati spinti a commettere la rapina da motivi di denaro: Gjoni e Obzurg avrebbero avuto migliaia di euro di debiti per droga e l’ultimo anche due famiglie da mantenere, mentre Kaja avrebbe avuto una situazione economica precaria

Dalle indagini sono emersi anche molti dettagli: nei loro telefoni Gjoni aveva registrato Obzurg come Pablo Escobar e l’altro lo aveva segnato come Alibabà

Il corpo

Il 25 giugno i carabinieri hanno trovato il corpo: Nicolas è stato gettato in fondo a un pozzo nella proprietà. Coperto da detriti e da un tavolo di plastica, usato per nascondere il cadavere. Il pozzo profondo diversi metri, con una circonferenza di poco superiore al metro. I tre speravano che un pezzo di legno molto grande affondasse il cadavere, ma così non è stato a causa di una grigia di ferro.

Secondo gli accertamenti, Nicolas è morto per asfissia. Attorno alla testa del cadavere c’erano più strati di nastro adesivo, un sacchetto di plastica e un altro di tessuto. La bocca era stata sigillata con lo scotch. E un filo elettrico gli stringeva il collo.

Le mani e le caviglie sono state legate con nastro e fil di ferro, uniti poi da una corda. Per questo ai tre è stata contestata l’aggravante della crudeltà. Le ultime ore della sua vita Nicolas le ha passate sotto un sottotetto, con il viso che, probabilmente, toccava la parete superiore e in pessime condizioni igieniche.

«È stato difficile vedere le foto di mio figlio in quelle condizioni – ha detto Aldo Eduardo Aguero, il padre di Nicolas – Pensavo di farcela, ma sono dovuto uscire dall’aula. Sono soddisfatto delle indagini, voglio solo che emerga la verità: si sono accaniti su di lui, non hanno avuto pietà e qualcuno li ha aiutati. Sono sicuro che c’è un mandante».

Eduardo Del Rio
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  • Collaboratrice di MaremmaOggi. Amo le bollicine, rigorosamente in metodo classico; il gin e credo che ogni verità meriti di essere raccontata. Non bevo prosecco e non mi piacciono né i prepotenti né le ingiustizie.
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