GROSSETO. Entrando da quello che i grossetani chiamano ancora campo Amiata, passando dalla passerella che porta in centro, il primo edificio che si affaccia su via Saffi è il carcere. Costruito alla fine dell’800 come casa circondariale, oggi è l’istituto penitenziario al servizio dell’intera provincia.
Sulla carta, potrebbe ospitare 15 detenuti. In realtà, il numero delle persone presenti nella struttura varia tra i 20 e i 30 ogni giorno. E il personale della penitenziaria è insufficiente. Lo scarso numero di agenti si vede quando il portone blindato si apre, non quando viene chiuso. «Il margine di apertura che abbiamo a disposizione è risicato – dice la direttrice Maria Teresa Iuliano – Il nostro obiettivo è quello di rieducare le persone che entrano in carcere ma per farlo abbiamo bisogno di personale. Gli agenti della penitenziaria non servono tanto quando le porte sono chiuse. Servono soprattutto quando si aprono all’esterno, quando organizziamo progetti rieducativi, quando i detenuti lavorano fuori dalla struttura».
È la Costituzione stessa a dirlo, all’articolo 27: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». Ma per farlo, servono uomini e mezzi.
Il dovere sociale della rieducazione
Lo dice a chiare lettere la direttrice Iuliano, arrivata alla guida dell’istituto penitenziario nel 2020 dall’Ipm – il carcere minorile – di Roma. «La rieducazione dei detenuti è un dovere sociale – spiega – e noi cerchiamo di assolverlo come possiamo. Ci sono diverse criticità che ostacolano il nostro lavoro. Uno di questi è la presenza di detenuti che arrivano da altre parti del mondo, che non conoscono la lingua e che è difficile da inserire in percorsi di studio o di lavoro. Anche perché essendo un istituto penitenziario, spesso i detenuti restano qui poco tempo, nemmeno quello utile, ad esempio, a concludere un ciclo di studi».
Il via vai attraverso il portone del carcere di via Saffi è continuo: ragazzi arrestati per spaccio o resistenza, per esempio, che restano in cella una sola notte o poco più e che poi, dopo la convalida o la direttissima, vengono scarcerati. Ma ci sono anche quelli che, dovendo scontare pene più lunghe o lasciati in carcere in attesa del processo, decidono di impegnarsi. «I detenuti più meritevoli – spiega Iuliano – li facciamo lavorare anche all’esterno della struttura. Ma abbiamo bisogno del personale per farlo, non possono essere lasciati soli, a meno che non si tratti di persone che beneficiano della semilibertà».
Di queste, ce ne sono quattro o cinque in carcere a Grosseto. «Per fare un esempio: se ammettiamo al lavoro esterno un detenuto, ad esempio alla potatura della siepe delle Mura che sono qui davanti – spiega la direttrice – abbiamo bisogno di mandare con lui almeno due agenti della penitenziaria. È comprendibile quindi quando diciamo che il personale non è mai abbastanza».
A scuola dietro le sbarre
Di laboratori, iniziative, percorsi di rieducazione, il carcere di Grosseto ne mette in campo diversi. C’è la scuola, quella che i detenuti frequentano nell’istituto, organizzata con i docenti del Cpia1 di Grosseto, c’è il laboratorio di teatro e quello di musica. C’è la biblioteca, che è cresciuta molto e che è inserita nella rete Gobrac. «I nostri detenuti leggono tantissimo – dice ancora Iuliano – Chiaramente quelli che conoscono la nostra lingua. La metà delle persone che sono qui da noi sono però stranieri e con loro è più difficile fare percorsi di questo tipo».
È il lavoro però il fondamento delle rieducazione degli adulti. «Quando ammettiamo qualcuno al lavoro esterno – dice Iuliano – dobbiamo accettare anche la possibilità di ricadute. È capitato e capiterà ancora. Le ricadute ci sono, sono sempre dietro all’angolo. Anche perché la maggior parte di chi commette reati e finisce in carcere ha alle spalle vite complicate, difficili. La rete lavorativa, così come quella scolastica all’interno dell’istituto, dà loro un progetto di vita che, una volta fuori, gli aiuta a trovare una collocazione nel mondo».
Imparare un mestiere in carcere
Il lavoro nel vivaio, quello nel panificio da semiliberi. O anche l’impegno nei corsi di formazione che ha organizzato ad esempio Cna, per insegnare ai detenuti a diventare potini provetti o giardinieri.
C’è anche l’impiego all’interno della struttura per chi non ottiene il permesso di lavorare all’esterno. «Ma anche questo non è un percorso semplice per una struttura – dice la direttrice – Qui i detenuti si occupano della lavanderia, qualcuno sta in cucina, altri si occupano della spesa o delle pulizie. Ma devono essere tutti assunti con un regolare contratto e le risorse che abbiamo a disposizione non ci permettono di farne molti».
I limiti, in carcere, non sono solo quelli delle mura spesse e delle sbarre alle finestre o delle porte blindate. Sono anche quelli economici. Attività, quelle che vengono svolte in carcere, che aiutano anche i detenuti a passare il tempo. Perché le giornate, nelle strutture penitenziarie, sembrano più lunghe, scandite dalle passeggiate nel cortile, dalle telefonate o dai colloqui con i familiari, dai pasti. Un tempo, quello dei detenuti, che scorre meglio quando sono impiegati in diverse attività.
«È un mondo variegato quello delle carceri, che pulsa di umanità – dice ancora la direttrice – quando con gli assistenti sociali indaghiamo sulle loro vite, troviamo sempre storie che sono coerenti con le scelte fatte dopo. E questo non può essere ignorato da parte nostra. Per questo il lavoro, la scuola e le attività sono importanti. Per dare loro un’alternativa, sperando che serva a migliorare la vita sociale di tutti».
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Redattrice di MaremmaOggi. Da bambina avevo un sogno, quello di soddisfare la mia curiosità. E l'ho realizzato facendo questo lavoro, quello della cronista, sulle pagine di MaremmaOggi Maremma Oggi il giornale on line della Maremma Toscana - #UniciComeLaMaremma
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