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Canto del maggio e innovazione: «Manca la versione rap»

Il volo di ricognizione sul maggio in Maremma con Corrado Barontini parla di tradizione, di canti differenti tra paese e paese, ma anche di innovazione, anche se ancora non ha sentito un maggio rap
Il coro degli Etruschi

GROSSETO. Come aprire una serra di farfalle. Questo è quello in cui si trasforma il porre una domanda a Corrado Barontini.

Esperto di cultura popolare e molto vicino a Morbello Vergari, ha con lui sondato le tradizioni popolari, coordinando e facendo parte (ancora) del “Coro degli Etruschi”, nonché curando alcuni libri. Ha poi proseguito e approfondito gli studi, facendosi promotore di iniziative rivolte al pubblico per divulgare e mantenere sempre vivo un patrimonio di tradizioni, come quella dei canti del maggio, che rischiano altrimenti di non ricevere lo stesso impulso innovatore che hanno ricevuto in passato.

Tracce di storia

Sì, anche se alcuni potrebbero essere scettici, il canto del maggio ha risentito di numerosi influssi ed ha una storia, anche geografica, davvero originale sul nostro territorio: «Il maggio più antico è quello che viene cantato a Civitella Paganico, il gruppo storico ha origini che affondano almeno fino al 1700 – racconta Barontini – In altre aree della Toscana i canti del maggio hanno un’impronta più teatrale, da bruscello, in Maremma questo è quasi assente, tranne rare apparizioni avvenute in passato».

«Qui in Maremma – prosegue Barontini – ha avuto diffusione soprattutto nel territorio delle colline metallifere un maggio di impronta lirica, più coreografico, ancora portato avanti. Maggiore diffusione anche al di fuori delle colline metallifere ha poi avuto il “maggio allegro” che si muove sulle onde del waltzer, e nel secondo dopoguerra si è poi legato molto alla festa dei lavoratori, probabilmente anche grazie all’impronta di Morbello».

La copertina di “Morbello vergari, scrittore e poeta”, libro dedicato all’autore

«Durante la guerra il maggio fu vietato, ma finito il conflitto la tradizione di questi canti prese piede poderosamente in Maremma. E molte aree, da quel periodo, ne hanno fatto un uso caratteristico, non che questo mancasse anche prima comunque – descrive Barontini -. Ad esempio l’area di Roccatederighi e Sassofortino è una di quelle che ha da tradizione sempre avuto un canto del maggio molto politicizzato. Lì si iniziò a cantarlo sull’aria del Nabucco, scritto da Pietro Gori, viaggiato prima su fogli volanti, poi prese radici in questi paesi. Lì un gruppo aveva nome “16 d’agosto” data della decapitazione di Sante Caserio, anche lui anarchico consegnato alla storia».

«A Roccalbegna – prosegue Barontini – il maggio veniva cantato come una serenata solo quando c’erano, davanti ai cantori, delle ragazze da marito. Nel 2009 con “Maggio in piazza” sono riuscito a radunare molte di queste differenti realtà in piazza a Grosseto, fu un evento che dette bene l’idea di quanto ricco fosse il nostro territorio».

La locandina de “il maggio in piazza”

«Per chi andasse nelle zone di Manciano o Saturnia – sottolinea Barontini – almeno fino a prima della pandemia, poteva notare che il maggio non era come nel resto della Maremma, lì si pianta un albero di maggio. Una tradizione quella dell’albero che tocca Santa Fiora e Rocastrada, e deriva molto probabilmente dalla Rivoluzione francese: in ogni città toccata dalla rivoluzione veniva piantato un albero cittadino».

La storia del maggio poi ci racconta che ci sono sì i canti, ma c’è anche un dopo: «C’è la cena, che qualcuno chiama “ribotta“, dove il gruppo avvia una tavolata in compagnia con quello che ha raccolto con le sue visite cantanti nei poderi» dice Barontini, che ricorda anche: «Da tradizione i gruppi portavano con sé dei fiori da donare ad ogni visita, e in cambio ricevevano qualcosa da mangiare, solitamente uova, ma qualche volta anche salumi o altro. Con Morbello nell’81, grazie anche all’aiuto del designer Aulo Guidi, decidemmo di donare delle stampe d’autore al posto dei fiori, una pratica che abbiamo portato avanti per 33 anni».

L’innovazione

Come illustra Barontini, il cantare maggio non è rimasto sempre lo stesso, oltre a diversificarsi in base alla zona, ha sempre avuto impulsi innovatori che ne hanno cambiato le sue pratiche, ma anche sue sonorità.

Ai cambiamenti molto ha contribuito la sua natura, che lo ha spinto ad avere, anno dopo anno, un testo nuovo, con nuovi contenuti, attualizzati e anche solo per questo, dunque, innovativi.

«Ci sono state molte impronte anche di carattere tematico differente – racconta Barontini – con nuovi moduli e nuovi temi. Nel 1981 il “Gruppo degli olmini” portò un maggio particolare, scritto da Sergio Lampis di Ribolla, su “L’elisa di Santino“. Piacque subito e divenne a tutti gli effetti un testo tradizionale, ripreso più volte. Salvo Salviati è un altro autore che portò col suo “Gruppo dei pioppini” (Poggio la mozza), un maggio tutto suo, con un’armonia decisamente diversa e caratteristica».

Il maggio è sempre stata un’occasione di rinnovamento, ma anche un elemento di unione tra generazioni, come descrive Barontini: «Molti ragazzi venivano introdotti al canto del maggio in vari ruoli, poi si presta bene ad essere cantato tra amici, molto gruppi nascono dall’amicizia comune. L’innovazione c’è sempre stata, ma che io sappia, adesso manca il passo successivo: non mi sarei stupito ci fosse qualcuno che volesse coinvolgere il genere rap, ma non ho nessuna notizia su questo. Nessuno canta un maggio rap? Sarebbe bello averne una versione. L’essersi fermati, specialmente dopo questi anni di Covid, mette a rischio una tradizione, che così non si vede rinnovata».

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