«L'ho accoltellata, mi ha chiesto: che cosa hai fatto amore?» Skip to content

«L’ho accoltellata, mi ha chiesto: che cosa hai fatto amore?»

Parla in aula Nicola Stefanini, a processo per il femminicidio di Silvia Manetti: per il neuropsichiatra l’operaio era affetto dalla sindrome di Adhd. La sua capacità di intendere e volere era «grandemente scemata» al momento del fatto
Nicola Stefanini con il suo avvocato Tommaso Galletti

MONTEROTONDO MARITTIMO. Intossicato dalla cocaina, incapace, a causa della sindrome Adhd di controllare i propri impulsi e anche di prendere decisioni senza che l’ansia e lo stress lo divorassero. Intossicato dalla cocaina, consumata a fiumi. Anche 10 grammi in due, in un solo fine settimana. In aggiunta all’ecstasy, ai francobolli di lsd, all’alcol e all’hashish. 

Quello che sembra essere l’incipit di un romanzo di Irving Welsh è il racconto di Nicola Stefanini, 50 anni, a processo per il femminicidio di Silvia Manetti, la sua compagna, uccisa al culmine di una lite l’11 agosto 2021

Stefanini ha acconsentito a rispondete alle domande del sostituto procuratore Giampaolo Melchionna. Nell’aula di assise del tribunale di Grosseto, l’operaio, difeso dall’avvocato Tommaso Galletti, ha confermato quanto già detto al pm dopo l’arresto e nei due interrogatori successivi. Ovvero, di aver ucciso Silvia al culmine di una lite scoppiata dopo aver festeggiato il loro terzo anniversario al ristorante. «Silvia, dopo la cena, voleva andare a comprare cocaina – ha raccontato, di fronte alla corte, al presidente Adolfo Di Zenzo e alla giudice Laura Previti – Io invece non volevo. Era giovedì sera e la mattina dopo dovevo andare al lavoro». 

La cena dell’anniversario

C’era il tavolo prenotato in un ristorante di Gavorrano, una bottiglia di vino e un motivo per festeggiare: il terzo anniversario della coppia, che, nonostante alti e bassi, aveva deciso di continuare a stare insieme. Poi, usciti dal ristorante, Nicola ha detto no alla richiesta di Silvia. «Voleva andare a comprare cocaina – ha raccontato in aula- ma io ho detto di no. Erano le 23, era tardi e la mattina dopo dovevo andare al lavoro. Lei ha cominciato ad offendermi, a dirmene di tutti i colori. Mi urlava che doveva fare sempre come volevo io, che ero sempre io a decidere. Io sapevo però che se avessi ceduto, poi la mattina avrei avuto difficoltà al lavoro. Quel posto mi piaceva, non volevo perderlo».

Un preambolo di pochi minuti, per rimettere insieme i pezzi di un puzzle che sono esplosi subito dopo. «Mi sono fermato a Scarlino a prendere i soldi – dice – poi sono andato nella piazza di spaccio, ma anziché gridare come sempre per far venire gli spacciatori, li ho solo chiamati e sono tornato in auto senza nulla». Silvia avrebbe continuato ad offenderlo, a urlare. «Mi sono fermato lungo la strada, lei continuava, voleva scendere per andare nel bosco a comprare cocaina ma io non volevo, per questo le sono montato a cavalcioni quando ho visto che ha aperto lo sportello dell’auto: mi ha sputato e io non ho capito più nulla, le ho affondato il coltello nel collo. Mi sono accorto di quello che ho fatto quando ho visto il sangue».

Stefanini parla e trema. Arriva a quella coltellata in pochi minuti. Nel silenzio dell’aula, ammutolita di fronte al racconto dell’uomo. Di coltellate – ha detto il professor Mario Gabbrielli durante l’udienza precedente, Stefanini ne ha sferrate 16. «Io ne ricordo solo una», dice. 

Nicola, quella sera, doveva prendere una decisione. «Prendevamo anche le pasticche, l’lsd – aggiunge – ma da quando avevo trovato lavoro volevo farlo solo il fine settimana. Mi ero prefissato di non farlo, quando dovevo andare al lavoro. Mi dispiace dirlo ora che lei non c’è più, è brutto, ma Silvia ne usava più di me». 

Le ultime parole di Silvia: «Che cosa hai fatto, amore?»

C’è una frase che rimbalza nell’aula d’assise del tribunale di Grosseto. L’ultima frase pronunciata da Silvia a Nicola. «Sono montato sopra di lei per non farla scendere dall’auto, lei si divincolava – dice – e mi offendeva. Era vestita bene, non volevo che andasse dagli spacciatori, poteva essere pericoloso. Lei ha continuato ad offendermi, poi mi ha sputato. Ho affondato il coltello e lei mi ha detto: “che cosa mi hai fatto  amore?”».

Silvia Manetti
Silvia Manetti

Più volte, Stefanini ripete alla corte e al pm, agli avvocati (Riccardo Gambi e Michele Giorgetti per le parti civili) che non voleva ammazzare Silvia. Lo ripete al pm Melchionna, ai giudici, alla giuria popolare. Non voleva ucciderla, ma quella sera, nella Fiat Doblò ferma sul lato della strada, il cinquantenne ha sferrato alla sua compagna 16 coltellate. Una, quella mortale, che ha reciso giugulare e carotide.  

«Io mi ricordo di averla colpita solo una volta – dice – quando ho visto il sangue». Difeso dall’avvocato Tommaso Galletti, Stefanini si è subito reso conto di averla uccisa. «Ho chiamato subito il 112 – dice – ho usato il telefono di Silvia. Avevo provato a tamponare il sangue con la mano o con la maglietta, non ricordo. Ma ce n’era troppo».  

Il coltello regalato dagli amici

Ma perché Stefanini aveva con sé un coltello? «Me lo hanno regalato – dice – lo portavo sempre con me. A Monterotondo facevamo sempre spuntini, mi serviva. L’avevo in tasca anche durante la cena».  Un coltello, Stefanini lo aveva dato anche al figlio minorenne di Silvia. 

Era un rapporto difficile, quello della coppia, un rapporto nel quale le liti scoppiavano continuamente. «Litigavamo tanto – dice – ma non l’ho mai minacciata. Avevamo litigato un po’ più forte a giugno, quando sono andato via da casa. Poi però ci siamo rimessi insieme».  

Due prestiti per pagare la cocaina

Avevano abitato per un po’ di tempo ad Altopascio, poi, nel 2020 si erano trasferiti a Monterotondo Marittimo dove Silvia aveva trovato lavoro, un paio di ore al giorno, in un ristorante e dove Nicola aveva trovato quel lavoro che non voleva perdere. Lui, ha spiegato al magistrato, aveva cominciato a fare uso di sostanze stupefacenti intorno ai 15 anni. Hashish, erba. Poi la cocaina, qualche anno dopo. 

Processo femminicidio Monterotondo – Il pm Giampaolo Melchionna e, dietro, gli avvocati Riccardo Gambi e Michele Giorgetti @maremmaoggi

«Con Silvia, fino a quando non ho trovato lavoro – ha detto – assumevamo cocaina ogni giorno. Poi soltanto nel fine settimana». E dove prendevano i soldi per tutta quella droga? A chiederlo è stato l’avvocato Riccardo Gambi, parte civile. «Silvia aveva una bella pensione – dice – e avevamo fatto due prestiti per pagare. Cocaina e hashish la compravamo nel bosco, invece l’lsd e le pasticche le prendeva lei su Internet». ne consumavano tanta, anche 10 grammi a settimana, di cocaina. «La pagavamo sui 40-50 euro a grammo – dice – le pasticche invece 7 euro ciascuna».

Arrivati a Monterotondo, però, Nicola aveva trovato lavoro e con Silvia aveva fatto un patto: lo sballo se lo lasciavano solo per il fine settimana. «Faccio il muratore, avevo bisogno di dormire – dice – Quando eravamo ad Altopascio vivevamo in campagna, nessuno veniva, nessuno ci disturbava. Era uno sfascio, quel periodo».

Nel borgo sulle Colline metallifere invece, quando i figli di Silvia andavano a letto, le serate a base di coca cominciavano il venerdì sera e duravano fino alla domenica pomeriggio. «Per pagare – aggiunge – abbiamo preso due prestiti, uno da 14.000 euro».  

Una madre malata di nervi e lo spettro dell’Adhd

È l’ambito familiare, quello nel quale cresce Stefanini, ad essere scandagliato subito dopo: il rapporto con la mamma, che soffriva di una malattia nervosa, che lo picchiava, a mani nude e con qualunque cosa le capitasse per le mani.

Il neuropsichiatra Romano Fabbrizzi durante il processo per il femminicidio di Monterotondo

Quando i carabinieri sono arrivati a Monterotondo, subito dopo aver ucciso Silvia, Stefanini ha sfondato i vetri dell’auto dei militari. «Ero fuori di me, mi volevo far ammazzare – dice –  Volevo uccidermi per quello che avevo fatto». Bocciato in seconda media, da ragazzino lo buttavano fuori dall’aula continuamente, faceva conduzione, già dalle elementari.

Lo ha raccontato la sorella di Nicola, più grande di lui di alcuni anni, che, quando i loro genitori lavoravano, accudiva il fratellino. La sua irrequietezza, però, non era normale. «Aveva un problema da piccolo – racconta – non cresceva. È stato anche ricoverato per quello. Mamma soffriva di nervi e ci picchiava, una volta mi ha tirato il phon su un braccio, ho ancora le cicatrici». Nicola aveva cominciato a drogarsi da ragazzino, lo ha fatto per più di trent’anni. «Io avevo sentito dire qualcosa in paese – spiega la sorella – ma non frequentavamo le stesse compagnie. Allora, parlavano di qualche canna. Della sua tossicodipendenza l’ho saputo quando è successa questa tragedia». 

La diagnosi del consulente

Un mix esplosivo: un passato familiare complicato, l’abuso di sostanze stupefacenti che avrebbe causato un’intossicazione cronica da droghe e alcol. E la sindrome di Adhd, un disordine dello sviluppo neuro psichico del bambino e dell’adolescente, caratterizzato da iperattività, impulsività, incapacità a concentrarsi che si manifesta generalmente prima dei 7 anni d’età. 

A delineare una personalità difficile da incasellare è il dottor Romano Fabbrizzi, consulente della difesa, che ha fatto una diagnosi ben precisa: Stefanini «soffre di una patologia grave e complessa fin dalla prima infanzia. Gli elementi trovano riscontro nelle pagelle scolastiche».

Una sindrome che porta con sé, ha spiegato il medico, «un elevato rischio di sviluppare l’abuso di sostanze – spiega – e in effetti, purtroppo, in mancanza di una diagnosi tempestiva e di una terapia ben calibrata, la malattia si è aggravata. Per questo ha cominciato a drogarsi tra i 14 o 15 anni, per non smettere più». 

Irascibile, impulsivo, fuori di testa, iperattivo sul lavoro. «Lo descrivono così le persone che avevano a che fare con lui – dice il medico – segnalando quelli che sono i tratti caratteristici della malattia. A questo si deve poi aggiungere l’intossicazione cronica di sostanze stupefacenti e alcol». Stefanini, quindi, ha sempre avuto difficoltà a gestire lo stress e a prendere una decisione. Quella sera, gli è successa la stessa cosa: era combattuto tra lasciarsi andare e rispettare impegno di lavoro. «Non controlla i pensieri, si scompensa, non riesce a ragionare – dice il medico – La sua capacità di intendere e volere, nel momento in cui è successa la tragedia, è stata fortemente scemata da questa sua condizione». 

La relazione del neuropsichiatra è stata consegnata ai giudici. L’avvocato Galletti ha di nuovo chiesto che il cinquantenne venga sottoposto a una perizia psichiatrica. Lo aveva già chiesto, ma la richiesta era stata respinta. Dopo la relazione di Fabbrizzi, il difensore lo ha chiesto di nuovo. La decisione, verrà presa a metà aprile, quando si tornerà di nuovo in aula. 

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