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Bilanci in perdita e pressione della politica: così è fallita la Mabro

Le motivazioni della sentenza di condanna degli ex amministratori: «Il rimprovero che può muoversi agli imputati è quello di aver cullato a lungo l’idea, rivelatasi illusoria, di poter “gestire in proprio” la crisi della Mabro»
La manifestazione delle vestaglie azzurre a Firenze sotto la sede della Regione (foto Massimo Sestini)

GROSSETO. «Gravi carenze nelle scritture contabili». Ma anche «uno stato di irreversibile insolvenza già dal bilancio chiuso al 31 dicembre 2004». Lo spettro della crisi, certo. Ma anche una gestione dei conti che ha procurato non poche difficoltà ai consulenti della Procura, che hanno passato al setaccio i documenti della Mabro, l’ex fabbrica di abbigliamento alle porte della città, fallita nel 2010

150 pagine,  per motivare la sentenza di condanna di Maurizio Graziano Favilli (tre anni e sei mesi) e di Giorgio Benassi (quattro anni) emessa dal tribunale, composto dalla presidente Laura Di Girolamo e dai giudici Andrea Stramenga e Marco Bilisari. Difesi dall’avvocato Alessandro D’Amato, i due amministratori della Mabro presenteranno ricorso alla Corte d’appello. 

A processo era finito anche Gianluca Mauro (assolto) e Franco Bosco (deceduto durante il processo). 

150 pagine che sono state utilizzate dai giudici per ricostruire anche la storia della fabbrica, attraverso le testimonianze dei due imputati, per i quali sono state riconosciute le circostanze attenuanti generiche «in considerazione – si legge nelle motivazioni – delle condizioni particolarmente complesse in cui gli stessi si sono trovati ad agire, rese ancor più difficili dalla pressione della politica e dell’opinione pubblica locale». 

«Il rimprovero che può muoversi ai predetti imputati – scrivono i giudici – è quello di aver cullato a lungo l’idea, rivelatasi illusoria, di poter “gestire in proprio” la crisi della Mabro quando questa, per le ragioni che si sono esaminate si era ormai fatta irreversibile». Probabilmente «nella convinzione, anche questa ex post rivelatasi errata – aggiungono – di poter contare sempre e comunque sul sostegno, invero divenuto nel tempo sempre più vacillante della politica e delle istituzioni locali». 

 

In tribunale la storia dell’imprenditoria cittadina

È la storia dell’imprenditoria cittadina, quella finita nell’aula d’assise del tribunale di Grosseto. La storia della gloriosa fabbrica delle vestaglie azzurre, fondata negli anni ’80 da Manlio Brozzi e finita con il fallimento di Abbigliamento Grosseto srl, il 28 dicembre 2016, dopo una stagione di lotte sindacali, di imprenditori arrivati in città con qualche idea ma con pochi soldi per realizzarle, di commissariamento. 

In mezzo, il fallimento di Mabro spa, che dal 2000 al 2008 gestita da Favilli, Benassi e Bosco, prima dell’arrivo dei romani, gli amministratori di Royal Tuscany fashion group. 

Mancanza dei conti di mastro anteriori al 2008, pochissimi crediti recuperati ma anche «forti dubbi sulla reale consistenza» di quest’ultimi e poche migliaia di euro sui conti correnti della società: è questa la fotografia scattata dal curatore fallimentare che ha fatto risalire, esattamente come ha fatto il consulente della Procura, il grave stato di dissesto al 2004.

«Dal 1997 in avanti – ha detto in aula il curatore – salvo un anno, la società aveva sempre chiuso in perdita». La perdita, nel 2004, era stata di 709.000 euro.

L’accusa di bancarotta

Bancarotta fraudolenta, perché la situazione contabile della società era già in profondo rosso da anni, banca rotta fraudolenta documentale, perché i periti hanno riscontrato, nel corso delle analisi della corposa documentazione della società, una «grave carenza delle scritture contabili e degli altri libri di cui è obbligatoria la tenuta», si legge nelle motivazioni della sentenza, tra cui i “mastrini” anteriori al 2008 e la contabilità di magazzino.  

Il curatore fallimentare prima e il consulente della procura poi, non hanno potuto ricostruire il movimento degli affari non soltanto del periodo precedente al fallimento ma anche di quello successivo. 

Responsabilità, quella della bancarotta fraudolenta, che comprende anche quella “impropria” da false comunicazioni sociali quando gli amministratori, per hanno deciso di utilizzare il criterio della rivalutazione degli assets societari, sia per quanto riguarda gli immobili che i marchi. I contratti di leasing in essere, quindi, erano stati rivalutati secondo la tecnica contabile del costo storico, mentre i marchi, riportati nel bilancio con un valore di oltre 5 milioni di euro, secondo i principi della rivalutazione internazionale. Che però, secondo il tribunale, non poteva essere fatto. 

La lunga agonia della fabbrica delle vestaglie azzurre

La spina alla Mabro, quindi, sarebbe dovuta essere staccata anni prima. Dal 2004 infatti, quando la società era già in grave dissesto – per i consulenti «irreversibile» – gli amministratori non erano stati capaci di far fronte con regolarità ai pagamenti per debiti erariali e previdenziali.

E quello, doveva essere un campanello d’allarme per gli amministratori, che avrebbero dovuto – di lì a breve – dichiarare il fallimento, senza aggravare il dissesto della società. 

Maestranze al lavoro nel capannone della Mabro

27 milioni di euro di debiti, di cui 16-17 nei confronti di Equitalia: 20 milioni in più rispetto al 2004. «Il ritardo della sentenza di fallimento – si legge ancora nelle motivazioni della sentenza – oltre ad aggravare lo stato di dissesto della società». La conseguenza più importante è stata quella di privare la massa dei creditori fallimentari dei beni più rilevanti dell’azienda, primi fra tutti gli immobili. 

Il capannone e i terreni furono aggiudicati, tramite l’asta, nei confronti di Royal Tuscany fashion Group «per un prezzo notevolmente inferiore»

La nascita (e la morte) di Abbigliamento Grosseto

Tutti e tre assolti, Favilli, Benassi e Mauro, per il fallimento di Abbigliamento Toscana, la società nata nel 2008 da una costola della Mabro. «La nascita della società –  scrivono i giudici nelle motivazioni della sentenza – ha rappresentato l’estremo tentativo, da parte degli amministratori della Mabro di “salvare il salvabile della storica azienda grossetana, tentativo attuato dopo che analoghe iniziative, intraprese sempre con il beneplacito, se non addirittura con la “pressione” delle istituzioni e della politica locale, preoccupate per i riflessioni della crisi aziendale in termini di occupazione e di perdita di posti di lavoro, si erano concluse con un nulla di fatto, in quanto nessun partner commerciale veramente affidabile aveva manifestato un reale interesse ad, alternativamente, entrare nel capitale sociale della società o rilevarne (in varie forme) l’attività». 

Un tentativo, quello fatto dagli amministratori della Mabro, che in aula è stato ricostruito proprio da Benassi, «per non portare i libri in tribunale». «Dovevamo ridurre il personale – dice – che nel 97 si aggirava sui 580 o 600 unità. L’azienda ed il mondo stavano cambiando già da allora. Perché negli anni Ottanta si potevano fare con tessuto due maniche, due bottoni e una giacca, nel ’97 il mondo è cambiato, il mercato straniero è entrato ad invadere il mercato italiano anche se è rimasto il made in Italy, ma le produzioni erano rivolta all’estero». 

Riduzione di personale del 50 percento se non di più. «La Mabro era un’aziendina che fatturava 23-24 milioni di euro – aggiuge – però si vedeva che il mercato stava tirando in un modo contrario». Per questo, nel 2004 Bosco lancia il primo “mayday” alla Provincia. 

Le promesse (disattese) della politica

È una lista di incontri quella che Benassi consegna al tribunale. Incontri con le istituzioni, alle quali viene chiesto aiuto per gestire la crisi della società e salvare i posti di lavoro. Con la Provincia, con il Comun. «Con il sindaco Bonifazi – dice – ci Vedevamo settimanalmente. È pervenuta anche Fidi Toscana, che doveva entrare in Mabro spa, che ha fatto tante promesse ma che poi non ha fatto niente». 

Tante promesse, tante chiacchiere e nessun risultato. Lo descrive così, quel periodo, Benassi. «Fidi Toscana era la società della Regione preposta per il salvataggio delle aziende – dice ancora l’ex amministratore della Mabro – che ci porta il dottor Luigi Odasso, come direttore per salvare l’azienda, presentando un piano industriale». Piano industriale che non è stato mai attuato. Benassi, il 30 marzo 2007 ebbe un terribile incidente e rimase fuori dall’azienda fino al gennaio 2009. 

La manifestazione delle vestaglie azzurre a Firenze

Ma in tutto questo periodo, da quando nel 2004 viene lanciato il primo allarme alle istituzioni in avanti, il nodo dei licenziamenti diventa cruciale. «Guai a licenziare una persona – dice Benassi – mai a mandare una persona a casa, perché c’erano loro che avrebbero salvato l’azienda»Loro, le istituzioni, Fidi Toscana in testa. «Ma la BMabro è sempre lì che aspetta l’ingresso di Fidi». 

Mabro lavorava per marchi come Pierre Cardin, Louis Vuitton e il fatturato era alto. Quello che serviva, nei primi anni Duemila, era trovare qualcuno, un partner, per poter risollevare l’azienda. «Era stato dato mandato a Fidi Toscana di cercare, di trovare una soluzione – spiega in aula Graziano Favilli – per salvare quest’azienda. Invece passavano gli anni e la situazione peggiorava». Bosco, Benassi e Favilli avevano anche seri problemi di salute, in quegli anni. «E per questo chiedevamo aiuto a Fidi Toscana – dice l’ex presidente della Mabro – il nostro interlocutore principale è sempre stata Fidi e la Regione». 

La soluzione, alla fine, fu trovata dai soci che traghettarono l’azienda ai “romani”, acclamati non solo dalla Regione e dalla stampa ma anche dalla Cgil. «Purtroppo anche lì – dice Favilli – la scopa nuova spazzò tre giorni». 

 

 

 

 

 

 

 

 

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