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In “Nottambuli a cena” la Grosseto che non ti aspetti

Esce l’ultimo libro di Otello Marcacci: «Scrivo perché non posso farne a meno. La mia città è piena di portatori sani di intelligenza»
Esce l'ultimo libro di Otello Marcacci: «Scrivo perché non posso farne a meno. La mia città è piena di portatori sani di intelligenza»
Otello Marcacci e la copertina del suo ultimo libro

GROSSETO. Scrive perché sono le storie che gli chiedono di uscire, come se avesse una voce interiore che lo tormenta finché non lo fa. «Lo faccio per non soffrire. Del resto Calvino diceva: “La fantasia è un posto dove piove”. Non diventerò mai famoso, lo so, ma non posso sottrarmi». 

Otello Marcacci, 59 anni compiuti da poco, è maremmano doc. Ma vive a Lucca, pur mantenendo un legame stretto con la sua terra di origine. E il suo ultimo romanzo, “Nottambuli a cena” è ambientato proprio a Grosseto. Uscito in preordine in questi giorni, per Les Flaneurs Edizioni, sarà alla fiera “Lucca città di carta” a fine aprile, poi al salone del libro di Torino, in maggio.

In copertina c’è una grafica che ricorda Nighthawks (I Nottambuli) di Hopper. E questo dice già molto.

“Dottore” in Scienze economiche e bancarie, preferisce esser chiamato “signore”, convinto com’è che occorra molto più sacrificio di qualche anno di studio per meritare tale appellativo. Scrive perché è convinto di avere un luna park nel cuore e vorrebbe invitare tutti a farci un giro, e perché vorrebbe contaminare il mondo con la propria fantasia. 

Otello Marcacci: «Scrivo perché non posso farne a meno»

Hai pubblicato diversi libri ormai, è possibile riuscire adesso a definire che  tipo di scrittore è Otello Marcacci?

«Non mi piace la narrativa di genere, mi annoiano i gialli e gli hard boiled. Per la verità ho persino molta difficoltà a considerarmi uno scrittore. Ovunque mi giri trovo qualcuno che ama definirsi tale e a me questa cosa disturba assai. Non mi sono mai piaciute le persone che si prendono troppo sul serio. E non sai quante ne ho incontrate. La quasi totalità di coloro che si credono tali verranno dimenticati molto prima che lascino i loro corpi mortali. E io, purtroppo, sono tra questi».

«Preferisco definirmi un autore, uno che scrive perché non può farne a meno. Ci sono alcune storie che hanno scelto di essere raccontate da me e io non posso sottrarmi. Un obbligo che si manifesta nel tormento che mi viene dato se mi ci sottraggo e scrivere per me non è godimento ma una liberazione da esso».

Non sei mai diventato uno scrittore mainstream eppure mi pare che i tuoi libri possano essere anche fruibili da un pubblico di massa o mi sbaglio?

«Hai perfettamente ragione. Ho sempre cercato di mettere nelle cose che scrivo diversi livelli di lettura. Ce n’è uno più facile e semplice che fa largo uso di ironia ed umorismo, ma allo stesso tempo il sentimento del contrario di pirandelliana memoria fa capolino e chiede di portare il lettore a uno stadio più profondo. Riuscire a far pensare dopo che ho fatto sorridere, è la gratificazione che più amo. I libri che hanno, secondo me, ragion d’essere sono quelli infatti che riescono a farti vedere il mondo con occhi diversi rispetto a quando li hai cominciati».

«Tuttavia è vero che sono rimasto uno scrittore di nicchia, fuori dal grande circo dell’editoria che conta. I motivi? Se lasciassi che la mia presunzione vincesse la partita potrei dirtene qualcuno in maniera caustica ma sarebbe di cattivo gusto, anche perché il rasoio di Occam rimane probabilmente la miglior risposta: forse non sono abbastanza bravo!»

La Maremma? una mamma degenere. Ma le mie figlie sono E202

Non vivi più a Grosseto da molti anni, come è il tuo rapporto oggi con la Maremma?

«Come molti dei miei amici di un tempo sono stato costretto ad andarmene per riuscire a sopravvivere. La Maremma è così: mamma degenere obbliga i suoi figli a doverla piangere da lontano per sempre. Ci sono momenti ancora oggi che a volte mi sembra che mi manchi un arto, o un qualcosa che ti serve ogni giorno per andare avanti come il cellulare o l’automobile. Parlando con maremmani espatriati ho scoperto che è sentimento comune a tanti. Viviamo come appesi a un ricordo di una terra che inevitabilmente non è però più quella che abbiamo conosciuto».

«In questo, ma solo in questo, mi sento simile a Bianciardi. Lui per me rimane uno dei più grandi scrittori del secolo scorso e ogni tanto mi chiedo che penserebbe se leggesse le pagine che ho imbrattato io. Certo il web aiuta a non perdere troppe trasformazioni ma di base, noi “esuli” abbiamo un’immagine più romantica di chi ha la fortuna di viverci ancora. In ogni caso ho fatto di tutto perché ci nascessero le mie figlie, affinché avessero scritto sulla carta di identità da dove vengono. Volevo così tanto che fossero E202 che ho persino affittato una casa apposta perché ciò avvenisse dato che non avevo più un posto dove stare. Forse non lo sai ma pure questo è amore, cantava quello».

È per questo che la usi come scenario dei tuoi romanzi?

«Direi di sì ma non sono mai io che decido davvero. Era già successo con “Tempi Supplementari” che raccontava la storia di una partita di calcio tra ragazzi che veniva ripetuta per tutta una vita e si ripete oggi con “Nottambuli a cena” . In realtà è  la storia che ha preteso di venir ambientata a Grosseto. Io le dicevo “Vien via, facciamola a Roma o a Milano stavolta dai ”, ma quella s’è impuntata. “Se non la fai a Grosseto ti prometto non ti fo’ più dormì”. Per un po’ ho resistito ma poi non potevo mica continuare a svegliarmi alle quattro tutte le notti (ride)».

Come è la Grosseto raccontata in “Nottambuli a cena”?

«È moderna, efficiente, tecnologica, aperta verso il futuro, ma allo stesso tempo la solita sciattona, menefreghista e piccolo borghese di sempre. Toccata anche lei dalla mafia moderna che non è più quella che spara, ma che si insinua subdola nelle pieghe delle certezze di chi si crede superiore. Piena di persone di cuore, generose ben oltre i limiti conosciuti in altri luoghi ma anche di portatori sani di intelligenza. Nel senso che ce l’hanno, ma non sanno di averla e non la usano».

La Maremma o si ama o si odia

Curioso, come li definiresti i maremmani se dovessi farlo?

«Guarda mi permetto di auto citarmi e uso le parole che ho fatto dire a Luca Migliorini, il personaggio principale nel romanzo: “I maremmani indomiti, ribelli, grezzi e poco avvezzi a maneggiare le cose con cura. Sospettiamo di chi si arricchisce in fretta, ma siamo pronti a farci in quattro per aiutare chi ha bisogno. Maledettamente generosi ma volgari, spigolosi, incapaci di mezze misure, facinorosi e con una malinconia latente che vive sottopelle e ogni tanto affiora nelle parole sussurrate. Non esistono vie di mezzo, la Maremma non lascia indifferenti: o si ama o si odia”».

Quali sono i temi di “Nottambuli a cena”?

«I soliti a me cari: il tempo, la memoria, il caso che non esiste, la morte, il labirinto della vita insomma. In questo romanzo però ne entra prepotente un altro:  il tradimento. Come sosteneva Hillman nel Puer Aeternus che è un libro che sarebbe fondamentale per tutti leggere, senza l’esperienza del tradimento, né fiducia né perdono acquisterebbero piena realtà. Il tradimento è ciò che conferisce loro significato».

«Persino Gesù diventa il Cristo quando è tradito dal padre sulla croce. Si dice che ogni libro ne abbia uno gemello dal quale prende spunto. Nel mentre che scrivevo avevo in mente quel saggio ed anche Finzioni di Borges, che credo sia uno dei massimi capolavori della letteratura. Temo che il risultato finale però sia un romanzo molto più simile a “Una banda di idioti” di Toole che ad essi. Insomma Luca Migliorini potrebbe benissimo essere il compagno di giochi di Ignatius Reilly. E sai cosa? Ne sono pure orgoglioso».

Come sarebbe questa storia del caso che non esiste? Anche te sei diventato buddista?

«Molte persone credono che le cose accadono per caso ma nel momento in cui ci colleghiamo in modo più intimo alle nostre intuizioni ci accorgiamo che tutto quello che ci accade e le strane coincidenze che ci capitano le abbiamo create noi e ne siamo direttamente responsabili. L’universo ci fornisce molti segnali per farci capire quando siamo sulla strada giusta e quando no. Persino Jung parlava della legge della sincronicità che avviene quando due eventi sono legati tra di loro, ma senza che l’uno influisca sull’altro da un punto di vista materiale ma che tuttavia appartengono allo stesso contesto. Comunque no, non sono buddista, ma ho scoperto Rudolf Steiner e più che lo conosco più che il puzzle della mia vita comincia ad avere una sua logica».

Quindi anche nel romanzo le cose non succedono “a caso”?

«Prova a pensare a questo: nell’antichità, nell’Odissea ad esempio, quando due personaggi si incontrano non stanno lì a fare presentazioni. Subito l’uno ha chiaro chi è e cosa vuole l’altro. È presente la sicurezza con cui ci si riconosceva. Si dice sempre che quello è un nemico, oppure sarà il padre dei miei figli o anche sarà presente alla mia morte. L’uomo della nostra epoca ha perso quelle sicurezze negli incontri ma ciò almeno ha aperto la libertà di coscienza che nel libro cerco di mostrare. Quindi no, niente succede a caso. E poi come diceva il vecchio Cechov, se nel primo atto si vede un fucile appeso al muro, nel secondo atto quello deve sparare».

Parlami dell’editore. Ti ha permesso di dire tutto ciò che intendevi far arrivare al tuo pubblico?

«Les Flaneurs è una casa editrice pugliese molto dinamica. In pochi anni ha conquistato un ruolo importante tra quelle indipendenti. Alessio Rega è un imprenditore che sa fare il suo mestiere, coniugando bene la qualità con le “necessità”. Si circonda di ottimi collaboratori, ascolta tutti ma poi decide lui.  E a me non ha mai messo un vincolo che è uno. Mai un limite. E pensa che “Nottambuli a cena” è un libro politicamente scorrettissimo, alla maremmana per capirsi. Eppure lui non si è permesso di togliere una riga. Ha il mio massimo rispetto». 

Quali sono state le tue più grandi soddisfazioni come scrittore?

«La gente come me vive unicamente per piccole gratificazioni, a volte persino insignificanti. Sì, certo, il figlio di un mio amico sostiene ufficialmente che io sia il più grande scrittore italiano vivente. So però che lo fa solo perché punta a mia figlia. Ma mi piace. Anzi lo incoraggio. L’ipocrisia è di molto sottovalutata (ride). Quando però un altro amico mi ha confessato che ha comprato il mio libro solo perché non poteva proprio non farlo pensando tuttavia che fosse un troiaio unico, ma che dopo venti pagine si era scordato che l’avevo scritto io perché completamente dentro la storia, beh mi ha emozionato tanto».

Dai allora riassumi Nottambuli a cena, in una frase sola.

«Si può imparare la cosa giusta dalla persona (o dalla situazione) sbagliata?»

Insomma ce lo vuoi dire infine perché Otello Marcacci scrive sì o no?

«La maggior parte delle persone sostiene di voler essere se stessa. Io no. Io non mi accontento, io voglio essere anche altro che solo me stesso. Per questo scrivo, per questo si legge».

Otello Marcacci ha pubblicato

  • Nel 2011 “Gobbi come i Pirenei” (NEO Edizioni)
  • Nel 2012 “Il ritmo del silenzio” (Edizioni della Sera)
  • Nel 2013 “La lotteria” (Officine Editoriali)
  • Nel 2016 “Sfida all’OK Dakar” (NEO Edizioni)
  • Nel 2020 – “La terra promessa – autobiografia Rock” – Les Flaneurs editore (saggio)
  • Nel 2020 “Tempi Supplementari – Ensemble edizioni.

 

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