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Cecilia Laschi, la signora dei robot…morbidi

La scienziata follonichese, da due anni a Singapore, racconta come è nato il suo visionario progetto della soft robotics e perché ha lasciato l’Italia
Cecilia Laschi con il suo Octopus @Jennie Hills, The Science Museum, London
Cecilia Laschi con il suo Octopus @Jennie Hills, The Science Museum, London

MAREMMANI NEL MONDO

SINGAPORE. Nel 2018 è stata inserita tra le 50 donne più influenti al mondo nell’ambito della tecnologia secondo Microsoft e Klecha. Nello stesso anno, per la rivista Forbes Italia, era tra le 100 italiane vincenti nel mondo. Prima ancora, nel 2015, era stata Robohub, la maggiore comunità scientifica internazionale di robotica, a piazzarla tra le 25 donne geniali, insieme alla collega Barbara Mazzolai, dell’Istituto italiano di Tecnologia.

Cecilia Laschi, follonichese, classe 1968, è da 15 anni ai vertici della robotica mondiale, da quando nel 2008, pioniera della “soft robotics”, ha inventato Octopus, il primo robot “morbido”. E ha aperto così la strada a una branca della robotica che ha consentito di fare un passo avanti decisivo verso il superamento dei sistemi tradizionali di movimento degli automi.

Nel nome “Octopus”, l’origine della geniale intuizione da cui è nato il progetto. Ovvero l‘osservazione di un polpo, un cefalopode privo di scheletro, con una straordinaria capacità di muoversi in acqua, entrare e uscire da una bottiglia, “camminare” sui fondali, allungarsi e schiacciarsi. Del resto il laboratorio di Cecilia Laschi è a Livorno e l’ispirazione non poteva che venire dal mare.

In cattedra alla National University di Singapore

Laschi, a fine 2020, ha preso un periodo di aspettativa e ha lasciato la cattedra di Bioingegneria industriale all’Istituto di BioRobotica della Scuola Superiore Sant’Anna, per volare a Singapore. Qui lavora nel gruppo di robotica per la facoltà di Ingegneria della National University, una tra le 20 migliori università del mondo. 

Ma come è arrivata a fare questa scelta? Non le piace definirsi un cervello in fuga, né si sente tale, ma la sua temporanea assenza dall’Italia nasce da una delusione legata alla sua creatura Octopus: un progetto nato in Italia, arrivato ai blocchi di partenza per essere sviluppato e lanciato a livello mondiale, ma lì rimasto per mancanza di finanziamenti.

Un progetto nato in Italia, ma sviluppato  all’estero

Eppure, è qui e grazie al sostegno della Commissione Europea, che Laschi ha potuto perfezionare i suoi studi su Octopus. Non le è stato facile dopo tanta fatica, tanti soldi, anni di lavoro, vederlo arenarsi.

«La Commissione Europea ha sostenuto il progetto quadriennale, di cui ero la coordinatrice, con circa 8 milioni di euro. I risultati di quella prima parte di studi hanno fornito le basi tecnologiche per lo sviluppo della soft robotics in tutto il mondo, ma dopo non gli è stata data continuità», racconta.

«Insieme a Barbara Mazzolai, infatti, nel 2018 abbiamo presentato un altro progetto di soft robotics alla Commissione europea, valutato con 14.5 punti su 15, ma non è stato ammesso al finanziamento. È stata un grande delusione, dopo un anno di lavoro che ha coinvolto 800 ricercatori europei e da altre parti del mondo. In poche parole, dopo aver dimostrato che la soft robotics rappresentava il futuro, è stata abbandonata. Mentre invece altri Paesi come l’America, il Giappone, la Corea ci si sono buttati investendo in ricerca e formazione».

Cecilia Laschi con Barbara Mazzolai alla Scuola Sant'Anna
Una giovane Cecilia Laschi con Barbara Mazzolai alla Scuola Sant’Anna (Ph sito Scuola Sant’Anna)

È a quel punto che Cecilia Laschi ha cominciato a guardarsi intorno e ha accettato di fare il colloquio con la National University che poi l’ha portata a Singapore, dove ha trovato le condizioni ottimali di studio e lavoro.

La robotica? un colpo di fulmine

Laureata in Scienze dell’informazione, alla facoltà di Scienze matematiche fisiche e naturali, a Pisa, quando ancora non c’era la facoltà di informatica, ha scoperto la robotica con la sua tesi di laurea. Poi è arrivato il trasferimento alla Scuola superiore Sant’Anna per il dottorato.

A quel punto le si è spalancato davanti un mondo. «È stato un colpo di fulmine – racconta – perché con la robotica potevo applicare alla pratica tutto ciò che avevo studiato in teoria. Io non sapevo nulla di questa materia, che ho scoperto piano piano facendo il dottorato, studiando e colmando tante lacune.

Prima di inventare la soft robotics, mi sono occupata per anni di robot umanoidi, per i quali seguivo la programmazione, ne studiavo il comportamento, applicando le neuroscienze e i modelli del cervello umano agli stessi robot. Tuttavia, per quanto l’umanoide fosse perfetto e preciso, nel movimento mancava l’elasticità».

Partendo da questa considerazione, Cecilia Laschi, insieme alla collega Mazzolai, si è lanciata nello studio di materiali alternativi a quelli usati nella robotica tradizionale. «Eravamo inesperte, visionarie – racconta – ma avevamo ragione. Oggi la soft robotics è la frontiera, il settore in cui vengono fatti i maggiori investimenti per la gamma di applicazioni che questa branca può avere».

Verso nuovi traguardi

Come ogni scienziato che si rispetti anche Cecilia Laschi ha il pallino delle sfide. «Mi piace esplorare sempre qualcosa di nuovo. La soft robotics ha avuto un successo che non mi aspettavo – dice – ma ora è un campo che tutti i colossi delle nuove tecnologie studiano. Nel mio caso è stato un trampolino che mi ha dato notorietà, che mi ha consentito di conoscere scienziati di tutto il mondo, condividere sapere e conoscenza».

Ora occorre anche guardare avanti, studiare, cercare, confrontarsi. »Per fare un esempio – riprende Laschi – dopo il progetto Octopus ho messo in piedi come coordinatrice scientifica “RoboSoft 2018”, la prima conferenza internazionale di soft robotics, cui hanno partecipato oltre 300 scienziati provenienti da tutto il mondo. L’anno dopo c’è stata quella di Seul, poi Yale, Edimburgo e quest’anno Singapore. È un progetto molto stimolante, che va avanti e cresce sempre di più».

L’Italia che lascia andare via i migliori “cervelli”

La storia del progetto Octopus è un po’ la parabola di quello che succede in Italia, dove le università formano ancora giovani studiosi molto preparati. «Da noi gli atenei investono in formazione molto più che all’estero – spiega Cecilia Laschi – con tasse accessibili, borse di studio per i dottorati, si pagano in parte i 6 mesi obbligatori fuori dall’Italia, dove i ricercatori portano le loro idee e le loro conoscenze.

Poi quando sarebbe il momento di mettere a frutto le loro capacità a casa, non essendoci investimenti nel nostro Paese, i giovani scelgono di andare fuori. È un paradosso. Infatti, all’estero succede esattamente il contrario».

Cecilia invece tornerà, ha la sua cattedra alla Scuola Sant’Anna, anche se ammette «qui sto benissimo, ho cambiato vita tanto, ma in meglio»

L’Italia le manca, fa almeno due visite all’anno alla sua Follonica, alla mamma e al fratello che vivono in città, ma, ammette «mi piace la qualità della vita che ho trovato a Singapore, l’ambiente, la gente con cui lavoro. È letteralmente un altro mondo».

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