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Bancarotta, sequestro da due milioni di euro

Società di autotrasporti fallita nel 2018: nessun bilancio presentato per anni, distrutti i libri contabili. Cinque indagati, nei guai anche un commercialista
Tribunale

FOLLONICA. Bancarotta fraudolenta, distrazione di beni societari, utilizzo di “prestanomi”. Sono le accuse rivolte dalla procura a cinque persone, tra le quali spicca anche un commercialista, nei confronti di due delle quali, padre e figlia, è stato disposto dal giudice per le indagini preliminari Marco Mezzaluna un maxi sequestro da 2 milioni di euro. 

Soldi che rappresenterebbero – stando alle indagini della guardia di finanza, coordinate dal sostituto procuratore Carmine Nuzzo – il passivo di una società di autotrasporti fallita nel 2018. Società che avrebbe maturato più di un milione e 300.000 euro di debiti erariali e previdenziali e 41.297.97 euro mei confronti delle banche. 

Un milione e mezzo di debiti con lo Stato

Difesi dagli avvocati Mara Renzetti, Carlo Valle e Tommaso Roccabella, gli indagati hanno scelto di non rispondere alle domande del giudice durante l’interrogatorio di garanzia fissato mercoledì 10 maggio nel tribunale di Grosseto. 

Per il maxi sequestro, gli avvocati hanno già fatto appello al riesame. 

La società di autotrasporti era stata costituita nel 2012 da diversi soci lavoratori. Ma dopo meno di tre anni, a capo della ditta sarebbe stato messo un prestanome, utilizzato dal commercialista coinvolto nella vicenda anche altre volte, per coprire fittiziamente cariche sociali in cambio di denaro. Il curatore fallimentare, che aveva l’obbligo di acquisire e analizzare tutta la documentazione, aveva trovato soltanto un bilancio depositato alla fine del 2013. I libri contabili, le fatture, le bolle e tutto quello che serviva per ricostruire lo stato patrimoniale della società era scomparso, così come l’ultimo amministratore in carica, che non si era mai fatto trovare dal curatore. 

A partire dal 2014, la società aveva cominciato a navigare in acque agitate: i debiti si erano accumulati e quelli nei confronti dello Stato, erano ormai pari a un milione e mezzo di euro. Inoltre, pur trattandosi di una società di autotrasporto, non c’era traccia dei beni mobili e la sede della società ospitava, ormai da più di 10 anni, un’agenzia immobiliare. 

Le indagini delle fiamme gialle

Una situazione rimasta immutata, quella che i finanzieri del comando di Grosseto hanno trovato quando, nel 2021, hanno avviato le indagini. Gli amministratori non erano stati rintracciati e i libri contabili non erano venuti fuori. Nessuno li aveva depositati, nemmeno il commercialista tenutario delle scritture della società

Guardia di finanza
Guardia di finanza

L’amministratore che aveva fatto perdere le proprie tracce, utilizzato dal commercialista come prestanome, era formalmente amministratore di 9 diverse società, alcune delle quali fallite o finite nell’ambito di procedimenti giudiziari per bancarotta fraudolenta. Tra queste, anche la “Grosseto disco”, la società che gestiva la Sala Eden. Società per la quale aveva patteggiato una pena per bancarotta. 

La società poi aveva un ingente debito tributario che non sarebbe mai stato pagato all’Agenzia delle Entrate: dalla sua costituzione, la società non ha mai pagato un euro di tributo, maturando un debito di oltre 1 milione e 300.000 euro. 

Padre e figlia nei guai

La società, amministrata per un periodo da padre e figlia, entrambi indagati per bancarotta, era piena di debiti: i due avevano necessità quindi di liberarsi di quelle somme che l’Agenzia delle Entrate avrebbe richiesto e per farlo si sarebbero rivolti al commercialista, che avrebbe suggerito l’uso di un prestanome. Testa di legno che sarebbe stata indicata proprio dal professionista. 

Padre e figlia, accusati di aver distratto beni incassando assegni, utilizzando il pos, disponendo bonifici sui conti correnti della società già fallita, avrebbero fatto 62 operazioni, incassando oltre 400.000 euro quando la società era già in stato d’insolvenza. 

Sarebbero stati loro quindi a mandare avanti la ditta e a costringere, pena il licenziamento, i dipendenti a diventare soci. 

Il dissesto finanziario e il fallimento – sostiene il giudice Mezzaluna – «vanno individuate esclusivamente nelle gravi e reiterate condotte di bancarotta fraudolenta oggetto di contestazione nel capo d’imputazione».  È il pm Nuzzo stesso a sottolineare infatti che «non sia stato individuato alcune elemento investigativo a discarico degli indagati – scrive nella richiesta di sequestro – o comunque indicativo di un concorso di cause nel dissesto». Insomma, «il fallimento della società – aggiunge – è stato lo sviluppo logico e prevedibile di delitti di “avidità” degli odierni indagati». 

 

 

 

 

 

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