GROSSETO. Giugno, Gallipoli. Baia Verde taglia la notte con le luci della discoteca, l’odore salmastro del mare, le voci dei turisti che si mescolano al rumore dei bicchieri. È qui che si muove una banda di ragazzini, quasi tutti minorenni. Una baby gang che non improvvisa: agisce, sceglie, colpisce. E tra loro – secondo la procura – c’è un ragazzo di 17 anni, grossetano, considerato il leader del gruppo criminale gallipolino-grossetano.
A giugno la storia deflagra: la polizia identifica i giovani, tre di loro sono maremmani, e il questore emette il foglio di via. Il nome del minore emerge da subito come quello che trascina, organizza, decide. La vicenda sembra chiusa, almeno nell’immediato. Non lo era.
Sei mesi dopo, la chiusura delle indagini riapre un capitolo dolorosissimo per le famiglie dei ragazzi coinvolti. Sabato 29 novembre, quando gli agenti della squadra mobile bussano alla porta, lui non c’è. È uscito di casa senza cellulare, scomparso per qualche ora. Ma lo trovano. E per ordine del gip viene portato nel carcere minorile di Firenze, l’Ipm.
La motivazione è netta, quasi chirurgica: «Spiccata capacità criminale, totale disprezzo dei diritti altrui». Non un gesto isolato, ma una condotta pianificata, non occasionale.
La vacanza che diventa un piano criminale
Il diciassettenne non è nuovo ai servizi sociali. Fino ad aprile era ospite di una comunità educativa, dove stava scontando una misura per una rissa a Castiglione della Pescaia dell’anno precedente. Poi ottiene la messa alla prova, un percorso per rientrare, ricucire, rieducarsi.
Ma l’estate devia la traiettoria. Parte per Gallipoli insieme ad altri due grossetani. In Puglia non c’è spazio per seconde possibilità: due rapine aggravate, due tentate rapine, aggressioni in serie. Le notti diventano territorio di caccia.
La prima denuncia arriva da un gruppo di ragazzi siciliani, appena usciti dalla discoteca. Raccontano di aver offerto una sigaretta al minore. Lui ringrazia? No. Simula un’origine diversa, si finge tunisino, brandisce una bottiglia come un’arma. Prima chiede soldi, poi passa alle minacce, spacca il vetro, attacca. Calci, sgambetti. I giovani corrono verso il centro, si salvano trovando una pattuglia della polizia.
Nel frattempo il branco si ricompatta e parte di nuovo. Il leader è riconoscibile: cappellino Gucci taroccato, nero su nero, l’abbigliamento del maranza. Le telecamere e le testimonianze parlano per lui.
Sputi, collane strappate, pugni: la violenza come linguaggio
Pochi minuti dopo la prima aggressione, la gang punta un altro ragazzo, del Nord Italia. Questa volta il copione è ancora più violento. Gli sfila gli occhiali da sole dagli occhi, lo insulta in arabo, lo deride. Poi gli strappa dal collo una collana da 800 euro, ruba 50 euro dal portafoglio e fugge. Il ragazzo resta a terra, preso a pugni, soccorso dal 118.
Non è finita. Terza vittima: giovani casertani in vacanza. Stesso schema, stessa brutalità.
Calci mentre sono già in terra, sputi, insulti: “Napoli colera”, gridano. A uno arriva addosso una catena da recinzione bianca e rossa, i segni rimangono.
Quando il gruppo riesce a fuggire, registra un video davanti a un locale. Le immagini ritraggono loro: la baby gang. È la prova che mancava.
La caccia alla banda e la fine dell’indagine
La polizia di Gallipoli individua l’appartamento preso in affitto, entra, perquisisce, trova i vestiti. Quelli indicati dalle vittime, quelli del maranza leader. Inizia la ricostruzione.
Passano meno di sei mesi, l’inchiesta si chiude: nove giovani coinvolti. Due maggiorenni, procedimento davanti al tribunale di Lecce, sette minorenni, pratica trasmessa alla procura minorile. Qualcun altro da identificare, probabilmente.
Tutti i ragazzi sono stati riconosciuti grazie alle foto che la polizia ha fatto vedere alle loro vittime.
Uno soltanto finisce in cella. Il grossetano di 17 anni. L’unico considerato capace di coordinare, orientare, comandare.
La gip non lascia spazio a interpretazioni: per lui la libertà, al momento, non è più un’opzione.




