GROSSETO. Il brusio davanti all’aula d’assise, al primo piano del tribunale di Grosseto, viene interrotto quando, un’ora dopo l’orario previsto per l’udienza, il presidente della corte Sergio Compagnucci annuncia che dal carcere di Regina Coeli è arrivata la dichiarazione di rinuncia a comparire di Klodjan Gioni.
Un silenzio che pesa più delle parole, quello che giovedì 11 dicembre ha investito il processo per l’omicidio di Nicolas Matias Del Rio, il corriere quarantenne ucciso dopo essere stato rapinato delle borse di lusso che stava trasportando.
Un silenzio inatteso, arrivato quando tutti – difese, pm, familiari – si aspettavano di ascoltare finalmente la voce dell’albanese che alla passata udienza aveva a sorpresa detto: «Da un anno e mezzo sono in carcere e non passa giorno in cui non pensi a quello che è successo. Nicolas è stato ucciso la mattina del 24 maggio, Kaja non era presente: glielo abbiamo comunicato dopo. Dirò tutto quello che è successo al mio esame».
Invece no.
Da Roma, dalla carcere nel quale è rinchiuso, è arrivata una dichiarazione di rinuncia.
L’attesa davanti all’aula
Magistrati, avvocati, familiari, giornalisti. Di fronte all’aula d’assise del tribunale una trentina di persone sono rimaste ad aspettare di capire se il testimone numero uno del processo, quello che aveva annunciato di voler parlare e spiegare, dettagliare quello che era successo, hanno aspettato per più di un’ora e mezzo. Soltanto mercoledì 10 dicembre gli avvocati di Gjoni, Riccardo Lottini e Alessio Bianchini, lo avevano incontrato nel carcere di Regina Coeli, per prepararsi all’esame.
Aveva pianto, di fronte a loro. Ma non aveva certo annunciato che il giorno dopo avrebbe rinunciato a comparire in aula.

«Eravamo convinti che rendesse dichiarazione – dice l’avvocato Riccardo Lottini in aula – Insistiamo perché possa farlo». L’avvocato ha chiesto di spostare la testimonianza alla prossima udienza del 14 gennaio: «Vogliamo sentirlo, è decisivo. E vogliamo anche capire cosa sia successo stamani, perché la rinuncia ha spiazzato anche noi». L’avvocato Bianchini, anche lui difensore di Gjoni, ha chiesto alla corte d’assise il trasferimento del 34enne in un carcere più vicino, come Pisa o Livorno. «Un’altra volta c’erano stati problemi con la traduzione – ha detto in aula – Forse se fosse in una struttura più vicina sarebbe più facile». Ma per il presidente Compagnucci non si è trattato di un problema di traduzione, bensì di volontà dell’imputato a partecipare all’udienza. «Abbiamo un problema di rinuncia. Stamattina la matricola ha chiamato dicendo che Gjoni non voleva comparire», ha specificato.

Il nodo è tutto lì, in quella scelta improvvisa e inspiegata. Inspiegabile forse no, visto che in aula avrebbe dovuto ricostruire il brutale omicidio. E che lo avrebbe dovuto fare non soltanto davanti ai giudici togati e popolari che poi dovranno decidere della sua vita, i pm e agli avvocati. Ma anche davanti ad Aldo Eduardo Aguero, il babbo di Nicolas. Era stato lui a farlo venire in Italia, a fargli lasciare il suo Paese. Per ritrovarsi e per costruire il suo futuro, insieme alla moglie Carolina e al loro bambino.
Alla fine la corte ha deciso: l’esame di Gjoni e quello dell’altro imputato, Ozgurt Bozkurt, si terranno alla prossima udienza. Una data, quella del 14 gennaio, che diventa ora il nuovo baricentro del processo.
Eduardo, il babbo: «Dobbiamo giustizia a Nicolas. Ogni volta una sorpresa»
E in mezzo a questa incertezza, a questi scarti improvvisi del processo, c’è sempre lui: Eduardo, il babbo di Nicolas Matias. Anche oggi era seduto sulle panche di legno dell’aula d’assise. Composto, provato ma presente come ogni volta, davanti a una giustizia che sembra non trovare per ora una linea retta.

Il dolore non lo lascia mai, ma continua ad avanzare, passo dopo passo. «Il bambino è voluto andare a trovare il papà», racconta con voce bassa. «Gli ha scritto una lettera: c’era scritto che lo ama». Parole semplici, quotidiane, e per questo ancora più devastanti. Perché il figlio di Nicola Matias quelle parole può solo affidarle a un pezzo di carta. Non potrà più dirle al suo babbo.
Di fronte all’ennesimo colpo di scena, Eduardo cerca forza dove può: «Andiamo avanti e scopriamo quello che è successo – dice – Dobbiamo dare giustizia a mio figlio». E poi quella frase che suona come un misto di rassegnazione e speranza: «L’altra volta, all’improvviso, aveva voluto parlare. Oggi questa sorpresa. Speriamo bene».
In questa storia tutto sembra cambiare continuamente. Tranne una cosa: il dolore dignitoso di un padre che non vuole smettere di cercare la verità.




