GROSSETO. In Vaticano, fino alla morte di Joseph Ratzinger, per la prima volta nella storia della chiesa ci sono stati due Papi. A Grosseto, ci sono invece due vescovi: Giovanni Roncari, che guida la Diocesi, e Rodolfo Cetoloni, che messa via la mitria, ha deciso di restare a vivere in città, tornando là dove tutto è cominciato 66 anni fa, quando l’allora bambino Rodolfo entrò in convento.
Oggi Cetoloni, vescovo emerito di Grosseto, vive in seminario e si divide tra la Maremma e la Terra Santa, dove porta avanti diversi progetto sostenuti dalla Fondazione Giovanni Paolo II.
50 anni con il saio addosso
«Avevo 11 anni, quando cominciai a percorrere questa strada – racconta Rodolfo – mi piaceva tanto andare alla messa e spesso mi fermavo in chiesa la mattina prima di andare a scuola, per servirla. Allora per studiare si entrava in seminario, c’era anche il campo sportivo. Un bambino vede queste cose, il resto è venuto dopo».

Originario di Badia a Ruoti, in Valdambra, classe 1946, Rodolfo snocciola i ricordi come se fossero i grani del rosario. Uno dietro all’altro. E in ciascuno, ci trova una storia da raccontare. «Venne ad Ambra un frate francescano missionario – ricorda – che era stato a lungo in Egitto. Mi chiesero se volessi andare con lui e io dissi di sì. Avevo 11 anni ed entrai così in convento. Di dubbi ne ho avuti tanti, di domande me ne sono fatte moltissime: ho sempre avuto il tarlo di sapere se avessi fatto la scelta giusta anche perché, di carattere, sono sempre stato timoroso, timido. E sono andato avanti così, tappa dopo tappa».
Fino a diventare vescovo della diocesi di Montepulciano. Dopo aver attraversato gli anni della contestazione studentesca, del ’68, quando Cetoloni studiava teologia a Firenze. Quando anche nei conventi soffiava il vento della lotta e nascevano le frazioni contrapposte. Allora, padre Rodolfo studiava all’Isolotto, quartiere popolare legato a doppio filo a don Mazzi, il prete del dissenso. «Avevamo la voglia e l’illusione di cambiare il mondo – dice il vescovo emerito – da giovani, quando si vede una primavera possibile, si fa di tutto perché venga realizzata».
La Terra Santa, dove Dio è inciso nella storia
Se c’è un legame, un filo d’oro, che attraversa tutta la vita di Cetoloni, è quello che passa per la Terra Santa. Una terra che Rodolfo ha vissuto e amato come se lì affondassero le proprie origini. Una terra dov’è arrivato nel 1971. «Quella terra mi ha salvato – dice – perché conoscere quei luoghi significava vedere incarnata la storia della fede». E proprio a Gerusalemme, il 26 giugno 1973, dopo quasi due anni di permanenza in Terra Santa, Cetoloni è stato ordinato sacerdote.
«Tornato in Italia mi sono rimesso a studiare – ricorda – ma quella vita non faceva per me. Mi veniva a noia. Non volevo insegnare, avevo paura che la mia timidezza in qualche modo mi sarebbe stata di ostacolo. Cominciai a lavorare in parrocchia. Vivevo a Roma e la domenica mattina mi occupavo di una piccola cappella alle Capannelle. Dopo Roma tornai e fui nominato vice alla parrocchia del Saione, in provincia di Arezzo e lì trovai la mia prima grande famiglia: quella di un gruppo di giovani che avevano raccolto l’eredità del post ’68, dove era vivo il dibattito sul divorzio, sull’aborto, dove si discutevano di tematiche sociali importanti. Sono ripartito da lì».

L’esperienza del Saione ha dato il la a quella che sarebbe stato poi il grande impegno di Cetoloni a Fiesole, dove ogni fine settimana arrivavano 150-200 ragazzi, dov’è nata nel 1982, per volere del vescovo Rodofo, la marcia francescana, che dura ancora oggi.
«Da una parte mi confrontavo con i frati, dall’altro con i giovani universitari – spiega – e questo modo di lavorare mi è rimasto addosso. Ha fatto crescere me, grazie al dono che loro avevano di mettere le loro istanze in connessione. Ho imparato allora quanto sia importante buttare il sasso in piccionaia e poi aspettare e raccogliere i frutti dal lavoro fatto insieme. Un modo di lavorare, questo, che risulta attraente per molti, ma che richiede una grandissima costanza». Una crescita costante, umana e spirituale. «Che alla fine mi ha portato a dire che essere frate o sacerdote – dice – significa ricevere il dono della paternità».
Il vescovo con i sandali da frate
A 39 anni, Cetoloni è stato nominato Ministro provinciale dei Frati minori. E le sue responsabilità hanno cominciato a crescere. Nel 2000 è diventato vescovo della diocesi di Montepulciano-Chiusi-Pienza. «Ero convinto che avrei detto di no – dice – ma non ho voluto mettere un no così pesante sul mio cammino. Ho sentito intorno a me tanta fiducia, soprattutto da parte dei giovani con i quali avevo lavorato in precedenza, che alla fine sono stati la spinta per accettare. Sono passato da un convento con 40 frati a un palazzo di quattro piani dove ero da solo. All’inizio non è stato facile, ma poi anche lì ho trovato una comunità che è diventata la mia famiglia».

Una famiglia fatta di clero e laici che Cetoloni ha dovuto lasciare quando è stato nominato, nel 2013, vescovo di Grosseto. «È stato uno strappo enorme per me – dice – e anche per chi ho lasciato là. È stato lasciare una famiglia, affetti consolidati. Ecco, su questo la Chiesa quando prende decisioni di questo tipo, dovrebbe riflettere».
L’abito talare, o che lo indossasse a Montepulciano o a Grosseto, gli è sempre stato un pochino stretto. «Quando ho il saio sono nei miei cenci – dice – quando ho l’abito talare, ricopro un ruolo. Con quello sono arrivato a Grosseto. È più città rispetto a Montepulciano e all’inizio mi è sembrata meno famiglia. Ma questa specie di distanza che mi sembrava ci fosse tra me vescovo e il resto della comunità, di fatto, non è mai esistita. Ho sentito l’affetto delle persone che mi hanno accolto, lo stesso che oggi vivo anche di più da quando ho scelto di restare».

Una città che Cetoloni ha visto cambiare. «Durante la pandemia di Covid – dice – ho scoperto una città impaurita, l’ho vista fermarsi. Dal punto di vista civile e sociale, Grosseto si è come anchilosata, esprime minor speranza rispetto a prima – dice – Sembra che le manchi lo sguardo in avanti. La pigrizia in questi casi rappresenta un grande pericolo: non sta agli altri scuoterci, dobbiamo continuare noi stessi a fare. Penso a chi, dopo il Covid, non è tornato in chiesa, penso ai fatti di bullismo che sono poi emerse, alle distanze tra le persone che si sono create: c’è stato un impoverimento personale al quale dobbiamo imparare a reagire».
Due stanze in seminario
Una volta messa via la mitria, di fronte a Rodolfo si aprivano due strade: trasferirsi a Gerusalemme o andare alla Verna. «Quando è stato nominato vescovo Giovanni Roncari, mio successore – dice – a Gerusalemme era scoppiata la pandemia di Covid. E tornare alla Verna, dopo anni che mancavo dalla vita monastica, non mi è sembrata la scelta giusta. Anche Giovanni mi aveva chiesto di restare e così mi sono trasferito in seminario. Ora cerco le piccole ricchezze artistiche nascoste nelle nostre chiese e le racconto su Toscana Oggi, aiuto le suore di Santa Elisabetta che hanno avviato diversi progetti all’estero, faccio da autista a don Franco Cencioni. Ho ricominciato a scoprire il senso di utilità e inutilità, di leggerezza».

E anche il rapporto con il vescovo Giovanni è ottimo. «Ci conosciamo dagli anni Ottanta – racconta – è un francescano come me – spiega – abbiamo collaborato molto e ci sosteniamo a vicenda. È bello questo scambio, ricevere e consegnare. È quello che ci è successo quando ci siamo dati il cambio».
I cinquant’anni di sacerdozio di Rodolfo saranno celebrati domenica alle 18 in Duomo. Mezzo secolo di esperienza, rapporti con le persone e con Dio. Di incontri e qualche volta anche di scontri.

«In 50 anni ho trovato diverse strettoie nelle quali mi sono sbucciato i gomiti – dice – ma ho avuto anche la grazia di avere accanto persone che sono state per me un esempio e che mi hanno fatto dire sì. L’esperienza in Terra Santa mi ha consegnato un filo d’oro che tengo sempre con me: è la presenza di Dio, della sua storia, in una terra disgraziata, abitata da popolazioni in lotta tra loro da sempre. L’ho trovato là, dove tutto è nato, ma anche dove sembrava impossibile che potesse accadere davvero. E oggi, l’unica cosa che mi interessa, è cercare di vedere il mondo come lo vede Dio. La vita è misteriosa ed è bella, ma a volte sa essere anche meschina. Noi non decidiamo nulla per noi stessi: dovremmo imparare tutti a fare le spugne, ad assorbire tutto. Qualcosa di amaro resta, certo. Ma il cibo buono è quello che nutre, soprattutto la nostra anima. Ed è facendo la spugna, assorbendo tutto, che possiamo costruisci al nostro meglio».

45 anni, redattrice di MaremmaOggi. Da bambina avevo un sogno, quello di soddisfare la mia curiosità. E l’ho realizzato facendo questo lavoro, quello della cronista, sulle pagine di MaremmaOggi
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