GROSSETO. Il primo istinto sarebbe quello di fare gli screenshot di quei commenti, evidenziare nome e cognome e poi pubblicarli, in una raccolta degli orrori. Potremmo farlo ogni sera, potremmo aprire tranquillamente una rubrica nella quale raccogliere quello che ragazzi, ragazze, uomini e donne riescono a diventare quando hanno uno smartphone in mano oppure quando si trovano di fronte allo schermo di un pc.
Metterli alla gogna, insomma. Ma è quello di cui i giornalisti e i giornali sono sempre stati accusati.
E allora cosa possiamo fare di fronte alle orde di commenti con i quali ci si diverte a offendere non solo una ragazza di vent’anni, ma per di più una ragazza di vent’anni morta per un destino maledetto? Una ragazza morta soffocata da un rigurgito, mentre era nel bagno della cabina del traghetto durante una gita scolastica.
L’unico strumento che abbiamo adottato è stato cancellarli, uno per uno. Poi bloccare la possibilità di commentare, eliminando però così la possibilità di scrivere un pensiero o mandare un abbraccio alla famiglia di Aurora. Quindi, a ben vedere, significa toglierci uno spazio di libertà, di democrazia. E anche di affetto.
Perché chi non ha ancora capito che quello che succede sui social, sebbene non sia la vita reale, si riflette perfettamente su essa e la modifica, non ha capito cosa c’è in gioco. La libertà.
La violenza dietro uno schermo
Sotto al post su Instagram di MaremmaOggi che dava la notizia della chiusura delle indagini da parte della procura di Torre Annunziata sulla morte di Aurora Bellini, un’onda di commenti violenti, sessisti, e no vax ha invaso lo spazio virtuale.
Parole d’odio che, invece di offrire conforto o un semplice pensiero, hanno aggiunto dolore al dolore, trasformando il lutto pubblico in un campo di battaglia per le proprie ideologie distorte.
Il fatto più agghiacciante è che, in molti casi, questi commenti sono stati scritti da coetanei di Aurora. Ragazzi e ragazze che hanno scelto di usare lo schermo del loro smartphone come uno scudo dietro cui nascondere una profonda mancanza di empatia e umanità. Sentimenti che crescono con le persone, ma che si imparano anche. A scuola, a casa, nella comitiva di amici. Non sui social, evidentemente.
Un mondo irreale dove tutto vale
Lo smartphone è diventato per molti un porto franco, un mondo parallelo dove le regole della convivenza civile non valgono. Si insulta, si denigra, si diffonde odio senza conseguenze, perché la distanza fisica annulla il peso delle parole.
Non c’è un volto da guardare, una lacrima da asciugare. Solo una tastiera e una serie di caratteri che sembrano non avere alcun impatto sulla vita reale.
Ma è un’illusione pericolosa. Queste parole colpiscono, feriscono e lasciano cicatrici. Per la famiglia di Aurora, leggere commenti del genere nel momento di massimo dolore è un’offesa indicibile.
Un attacco che va al di là del semplice disaccordo e si trasforma in una mancanza di rispetto totale per la vita e la morte di una persona. Cattiveria, odio. Forse è arrivato il momento di smettere di trovare giustificazioni a comportamenti come questi. Dove un qualunque studente che non ha nemmeno finito le superiori scrive liberamente che il risultato di un’autopsia non è vero e che la causa di morte è un’altra.
E non lo fa certamente perché lo sa. Ma, di nuovo, lo fa per buttare fango, per darsi una statura alla quale difficilmente arriverà anche da adulto. Per vantarsi, poi, con gli amici, per rafforzarsi nel branco. «Si vede che era drogata, guardate gli occhi», scrive uno di questi. Il risultato dell’esame tossicologico dice il contrario.
«È una sierata», scrive un’altra, facendo ovviamente riferimento ai vaccini. «Si sa tutti che si va in bagno per mangiare», aggiunge un’altra. Insinuando chissà che. Ma che ne sanno? E se non lo sanno, perché lo scrivono? Ma soprattutto, dopo averlo scritto, come si sentono?
Il rispetto come primo passo
Sarebbe fondamentale rendersi conto che anche sui social media le regole del rispetto e dell’educazione devono prevalere. Ma è impossibile appellarsi alla coscienza civica, quando persone che si sfogano così, una coscienza civica non ce l’hanno.
Qualche mese fa, quando un diciassettenne in fuga dalla polizia in bicicletta si è schiantato contro un palo, tanti sui social hanno fatto il tifo per quest’ultimo, per il palo. Gli stessi che allora inneggiavano al palo, non sono gli stessi cyberbulli che si sono fiondati a commentare il risultato dell’autopsia di Aurora. Sono diversi. E questo fa ancora più impressione (anche se vorremmo utilizzare la parola schifo, letteralmente più adeguata). Perché vuol dire che la platea si amplia a ogni post, a ogni articolo, a ogni confine superato.
Quello delle offese nei confronti di una ragazza che se n’è andata sei mesi fa per una tragica fatalità è forse il confine più profondo. Il solco che credevamo essere invalicabile ma che ci siamo accorti non esserlo stato.
Gli amici di Aurora hanno lasciato cuori e ricordi sotto al post. L’hanno celebrata, come meritava. Poi sono arrivati loro: quelli che non si fermano davanti a nulla, quelli che non riflettono sull’importanza di essere umani, non solo nel mondo reale, ma anche in quello virtuale.
Non c’è nulla di più vile che calpestare la memoria di una persona appena scomparsa.
Le piattaforme social, e noi che le usiamo, abbiamo la responsabilità di difendere la dignità di chi non può più farlo. Dovremmo essere capaci di non lasciare all’indifferenza e alla cattiveria l’ultima parola. Invece, anche questa volta, qualcuno ha dimostrato di valere quanto il commento lasciato sotto al post.
Ai familiari di Aurora, agli amici, mandiamo il nostro abbraccio, sperando che cancelli, anche solo per un secondo, l’odio sconfinato che scorre sulle dita di chi pensa che la vita si lì, sullo schermo di uno smartphone.



